Articoli e lavori dei Soci


Questa pagina intende raccogliere gli articoli e i lavori pubblicati dai Soci del CRP, di particolare rilievo nell'ambito della psicologia e della psicoterapia cognitivo-comportamentale, della psicologia preventivo promozionale e di intervento psicosociale. Chi voglia fare segnalazioni a riguardo può scrivere alla segreteria del CRP; gli articoli e i relativi link saranno inseriti in questa pagina.


Roberto Picozzi

La gelosia: disturbo ossessivo-compulsivo da relazione


Nella Gelosia Ossessiva le immagini e le idee sul tradimento sono incoercibili ed il dubbio sull’infedeltà del partner è lacerante. Chi ne soffre è continuamente alla ricerca di segnali che possano lenirlo, confermarlo o smentirlo. Il paziente si trasforma spesso in un detective a tempo pieno che può impiegare nell’attività di ricerca dell’infedeltà del partner il più e il meglio del suo tempo. I gelosi ossessivi riconoscono l'infondatezza dei loro sospetti, arrivano anche a vergognarsene, ma sono, loro malgrado, trascinati e sommersi dal dubbio. C'è chi sottopone tutti i giorni la moglie a martellanti interrogatori, chi controlla in modo dettagliato la castità del suo abbigliamento o la corrispondenza del partner e chi magari anche la biancheria intima, alla ricerca di attività sessuali extra. Queste persone riescono a rendersi conto delle loro esagerazioni, ma non ce la fanno a cambiare condotta. I sentimenti di gelosia vengono vissuti permeati da un incoercibile dubbio.

L'ossessione del rapporto di coppia appare legato alla incapacità di stabilire con certezza la ragione emotiva per rimanere in un rapporto anche se non c'è una chiara giustificazione. Un gran numero di persone ossessionate circa il proprio orientamento sessuale e che sono impegnate da tempo in una stabile relazione, sono spesso tentate di provare se il loro attaccamento al partner sia sufficiente. Per gli ossessivi non è difficile che s'inneschi anche il pensiero intrusivo circa giustificazioni per stare col proprio partner. Le persone che sono ossessionate dalla sostanza del proprio rapporto di coppia spesso si basano sulla misura delle intensità delle proprie emozioni per giustificare e decidere se rimanere in una relazione o terminarla. E tendono ad analizzare all’infinito le qualità che per loro e per la società dovrebbe avere una perfetta relazione sentimentale.

La maggior parte di queste persone si focalizza sul cercare di capire i propri sentimenti e cosa provino. Questa ossessione che porta a mettere sotto la lente del microscopio i propri sentimenti può avere per oggetto anche l'amore per i bambini, per i genitori, per i propri amici, per Dio. Quando una persona con questa ossessione si sforza di saggiare le proprie reazioni emotive per giustificare il proprio livello di coinvolgimento nelle coppia e nella relazione con l'altro, la reazione più comune è quella di non sentire nulla o di sentire solo ansia. Anche durante i momenti più intimi di maggiore enfasi, quando ci si aspetterebbe di sentire il coinvolgimento, ecco che l'ossessione si insinua facendo venire meno questa sensazione. In realtà c’è una guida interna che suggerisce che il proprio timore non è giustificato. La maggior parte delle persone che soffrono di un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) ammettono di essere dolorosamente consce della natura irrazionale delle loro paure, ma spesso si concentrano sui difetti minimi dell’altro. La scelta di sposarsi nonostante i dubbi e le rimuginazioni è spesso fatta per porre la parola fine all’incertezza. Ma né il matrimonio e né la separazione fanno finire la sofferenza. E questo spiega perché molti pazienti continuano la terapia anche per diversi anni dopo la decisione di lasciarsi e stanno ancora cercando di capire se la loro scelta sia stata quella giusta. L'affermazione “l’assenza accresce il desiderio” è appropriata. Generalmente quando qualcuno sente l'urgenza di interrompere il rapporto per smettere di stare male, la consapevolezza di quanto si è perso ritorna a oltranza. Le persone con questa ossessione che hanno deciso per liberarsi, di lasciarsi e dire basta, spesso ruminano chiedendosi se hanno fatto una scelta giusta. Appena finita la storia sentimentale la mente diventa molto selettiva, si concentra solo sui ricordi positivi e allontana quelli negativi. Lo sconforto associato al bisogno di avere una risposta al riguardo è tremendo. Quando si parla di DOC l’intensità del dubbio è amplificata dal tormento. Persone che, seguendo la ragione, sono perfettamente consce che la loro storia d'amore è veramente finita, possono ancora passare ore a rimuginare se è il caso di cercare di recuperarla o no. Quando è presente questa componente dell’ossessione il naturale effetto curativo del tempo tende ad essere eliminato. Devono esserci 50 ragioni per lasciare il proprio amore. La giustificazione più comune usata dagli ossessivi per spiegare la fine di una relazione che di base era buona, è quella di aver provato un'assoluta mancanza di sentimenti di desiderio e amore, sia quando erano che quando non erano col partner. Non provando certe sensazioni essi sono arrivati a interpretare questa esperienza come una sconfortante apatia e senso di vuoto che crea un’ansia così forte che talora arriva alla derealizzazione o alla depersonalizzazione. Il disturbo offre una possibilità di sollievo assai convincente, se solo si accetta di terminare il proprio rapporto di coppia.

La Sindrome di Mairet e la Sindrome di Otello

Nella Sindrome di Mairet chi ne è affetto vive in un clima pervaso di vissuti di gelosia non solo di tipo amoroso. La condizione è indicata anche come "Iperestesia Gelosa" e raffigura un quadro clinico di confine tra normalità e patologia, in cui le idee di gelosia sono quantitativamente sviluppate e tendono ad occupare tutto il campo esperienziale del paziente.

Nella Sindrome di Otello (o Gelosia Delirante o Delirio di Gelosia) la persona è convinta della infedeltà del partner ed è alla costante ricerca del tradimento ad esso inflitto. Tenta in “mille” modi differenti di strappare la confessione al partner ed effettua rimedi contro la sua supposta infedeltà restringendone l'autonomia o assoldando investigatori. Il comportamento del paziente pertanto non è teso alla scoperta di qualcosa, che si pensa già di sapere, ma piuttosto di far ammettere all'altro la colpa. Da qui una assillante e tormentata richiesta di confessioni, portate avanti talvolta in modo subdolo, altre volte con l'arma del ricatto, talvolta infine ricorrendo alla coercizione e perfino alla violenza fisica.

La gelosia è un sentimento che parte dalla idea che ciò che ho di più “ caro” potrei, da un momento all'altro, perderlo. Essa si lega al concetto di possessività, alla possibile perdita di ciò che si ritiene proprio. Entrambi i sentimenti pretendono “l'altro”, vogliono la sua presenza in termini esclusivi e personali. L'altro viene considerato un “oggetto” piuttosto che un “soggetto”. Spesso chi è affetto da questa sindrome manifesta la sua gelosia in assenza di qualunque fatto, di qualsiasi circostanza che possa giustificare un vissuto del genere. Nella gelosia sono presenti una o entrambe delle seguenti componenti: paura dell'abbandono, della perdita, della separazione, di ciò che si ritiene proprio e necessario al personale benessere; gelosia ed invidia dell’altro che potrebbe condividere ciò che è nostro. Gelosia delle caratteristiche che il rivale ha e noi non abbiamo. In questo caso la gelosia non è rivolta tanto al proprio partner, ma è gelosia del terzo e quindi si muove ai confini dell’invidia.

È importante distinguere fra gelosia “normale” e gelosia “patologica”. La gelosia normale è inseparabile dall’amore per il partner, ed è sempre presente a livelli accettabili. Anzi se non ci fosse si potrebbe addirittura dubitare se è vero amore. Inoltre serve a far sentire l'amato veramente amato, perché attraverso la gelosia manifestiamo la paura di perderlo.

Invece parliamo di gelosia “patologica” quando essa assume le seguenti caratteristiche:

  1. Paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;
  2. Sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone dell’altro sesso;
  3. Controllo di ogni comportamento dell’altro;
  4. Invidia ed aggressività verso i possibili rivali;
  5. Aggressività persecutoria verso il partner;
  6. Sensazione d'inadeguatezza e scarsa autostima di se stessi;

La gelosia quella “patologica” è, dunque, il timore di perdere qualche cosa che si ritiene essenziale per il proprio benessere e che questo qualcosa, che si ritiene essenziale, altri possano impossessarsene. Esso si manifesta anche in assenza di qualsiasi motivo valido. Proprio la gelosia è in alcuni casi la causa della rottura di una relazione. Anzi se si teme tanto che una relazione possa finire che, senza volerlo, la gelosia la fa finire veramente (La profezia che si auto-determina).

La “Gelosia Patologica”, il più delle volte, affonda le sue origini nell’infanzia, in una cattiva relazione che il geloso ha instaurato con i propri genitori. Questi ultimi spesso non hanno adeguatamente rinforzato il bambino nella fiducia in se stesso e nell’autostima, contribuendo così a determinare un adulto geloso perché non conscio delle sue possibilità e del suo valore e profondamente insicuro. Ciò porta a pensare che il proprio partner potrebbe amare un altro perché più degno e a non essere sicuro del suo amore.

Ma la “Gelosia Patologica” può tradire anche un desiderio di possesso assoluto del partner.

Ciò avviene in molti casi per una cattiva relazione affettiva costruita con i propri genitori, soprattutto con quello di sesso opposto. C'è la presenza di un'affettività che non è stata ricambiata sufficientemente durante l'infanzia e si pensa di riscattarla da adulti, attraverso il possesso assoluto dell'altro.


Lucio Sibilia

Presentazione dell'Analisi Formativa


Vorrei iniziare la presentazione di questo libro di Stefania Borgo anzitutto dal titolo: l’espressione “analisi formativa”. Trattandosi di un’espressione relativamente nuova in questo campo, richiede qualche spiegazione. Credo che l’analisi formativa meriti un’attenta disamina in quanto capitolo un po’ trascurato nella formazione dello psicoterapeuta, non solo in ambito cognitivo-comportamentale ma in generale, cioè la conoscenza di sé. Inoltre, la si può confondere con altri concetti, ancora diffusi nell’attuale cultura psichiatrica e psicologica, la cosiddetta “analisi didattica” e la “terapia personale” del terapeuta, di origine psicodinamica, da cui invece si distingue radicalmente.

“Analisi” è concetto e termine che troviamo presente nella grande maggioranza dei campi disciplinari, soprattutto in quelli scientifici. Studiare un fenomeno, un evento, o un organismo, ma anche un edificio o un testo, è quasi sinonimo di analizzarlo, cioè scomporlo nei suoi elementi o aspetti costitutivi. Quale scienza non analizza i suoi oggetti di studio? La metafora dell’analisi è la lente di ingrandimento, che ci fa apparire come distinti dei punti che inizialmente ci apparivano coincidenti. Da notare che questo “avvicinamento” ci dà la sensazione che la conoscenza del nostro fenomeno sia molto più accurata, attendibile o precisa.

Questa “scomposizione” tipica dell’analisi la troviamo anche in psicologia, che da più di un secolo ha acquisito un solido statuto di scienza empirica. Contenuti e processi cognitivi vengono studiati distintamente da quelli comportamentali, emotivo-affettivi e motivazionali, definendo così diversi settori della ricerca psicologica, pur riconoscendo che tutti questi elementi non sono affatto indipendenti; non lo sono infatti, così come non lo sono i diversi organi del corpo, ma costituiscono un unico sistema, intendendo questa espressione nel senso proposto da L. Von Bertalanffy (1968).

Tale consapevolezza “sistemica” è andata crescendo nelle ultime decadi, in parallelo con quella della insufficienza dei singoli settori della psicologia a spiegare l’intero comportamento dell’essere umano. Tuttavia, tale consapevolezza non è in antitesi con un atteggiamento “analitico”, così come la geologia non è affatto in antitesi con la chimica dei minerali o con la meccanica: si tratta di momenti diversi dell’impresa conoscitiva circa ciò che assumiamo sia la stessa realtà.

Inoltre, le conoscenze più approfondite circa i costituenti del “sistema uomo” (Von Bertalanffy, 1967), che qualcuno chiama sistema mente-cervello (Vignoli, 2010), evidenziate attraverso il metodo logico-empirico della scienza, hanno consentito lo studio delle specifiche relazioni sistemiche, aiutando così a restituire e ricostituire una visione e una conoscenza d’insieme. L’analisi, quindi, da una parte può produrre altre analisi, consentendo così ulteriori scomposizioni, ma dall’altra consente anche un migliore apprezzamento delle caratteristiche sistemiche, non appena si operi un’inversione della direzione di indagine, cioè una sintesi, attraverso lo studio dei rapporti tra sottosistemi e delle proprietà emergenti. È da notare che tale sintesi può condurre a ricomporre gli elementi in modi diversi dalle configurazioni iniziali.

Tali caratteristiche sistemiche o emergenti sono quelle che forse più contano quando esaminiamo il “sistema uomo” nel suo contesto interpersonale; ciò vale sia per uno studio in un contesto clinico, sia per l’osservazione diretta di un soggetto nel suo ambiente sociale. Si tratta di caratteristiche comportamentali quali ad esempio abitudini, abilità, atteggiamenti, tendenze, interessi, personalità, sintomi, o ethos individuale; in quanto tali, sono osservabili e misurabili. Si tratta di caratteristiche che possono meglio di altre essere descritte con linguaggio corrente, in quanto relative ad attività socialmente definibili quali sono appunto i comportamenti.

Nessun oggetto di analisi, inoltre, lo si può pensare al di fuori di un contesto. E bisogna riconoscere, di nuovo, che tra i contesti che più contano per l’essere umano vi sono senza dubbio i contesti interpersonali. In particolare nell’ambito clinico, è praticamente impossibile lo studio esaustivo di un soggetto al di fuori di un contesto interpersonale. Ma lo studio dei rapporti dei propri soggetti (che sono gli “oggetti” di indagine del clinico) con il loro contesto sociale è pur sempre un’analisi, anche quando fosse lo stesso clinico-osservatore a far parte del contesto.

Questa attenzione al contesto è parte anch’essa di quella consapevolezza sistemica cui ho accennato, e che appare sempre più rilevante non solo in psicologia, ma anche in altre scienze. Bisogna però notare che anche i contesti sono socialmente definibili e definiti, quali ad esempio la relazione di coppia, la famiglia, gli ambienti di vita e di lavoro, i gruppi socio-culturali di riferimento, etc. Di fatto, sappiamo che in tali contesti le stesse persone assumono ruoli talvolta molto diversi e mostrano aspetti comportamentali diversi, cosa che contribuisce alla variabilità intraindividuale dei comportamenti.

Sappiamo che tali contesti ed i rapporti tra loro sono anch’essi oggetto di analisi di altre scienze del comportamento, quali ad esempio la psicologia sociale, la sociologia, o l’antropologia culturale. Tuttavia, anche nell’esaminare il contesto di vita di un soggetto – cioè il sistema di cui l’individuo fa parte – è possibile in teoria definire un più ampio contesto in cui questo sistema è iscritto. Nella prospettiva della “complessità” sarebbe anzi necessario farlo, per comprendere appieno il “sistema uomo”, con i suoi vari livelli gerarchici di osservazione-descrizione.

Ma dove mettere il limite a questa analisi del contesto del contesto del contesto, etc.? Allargando troppo la visuale, ci si allontana dall’oggetto, perdendolo di vista.

L’analisi dei contesti interpersonali, sociali, culturali, etc., cioè l’analisi dei rapporti sistemici, sempre più ampi, in cui collocare la prospettiva dello studio di un singolo soggetto, delinea la direzione di uno studio possibile ma necessariamente sempre più astratto, fino a diventare probabilmente inservibile.

È già intuitivo, da quanto ho esposto, che lo studio dei comportamenti umani ha bisogno sia dell’analisi degli aspetti più soggettivi dell’individuo (sotto-sistemici) che di quelli di rapporto con i contesti di vita cioè “relazionali”, che potremmo chiamare sovra-sistemici. Limitarsi all’analisi della soggettività e pertanto isolare e scomporre ad esempio variabili emotive, cognitive o motivazionali, come se non avessero rapporti con le attività dell’individuo ed il suo ambiente, significherebbe condurre, se pure fosse possibile, uno studio esclusivamente “intrapsichico”.

Questa strada, imboccata dalla psicoanalisi più un secolo fa e, apparentemente, anche da un certo cognitivismo clinico attuale, comporta il rischio di perdere quei riferimenti e vincoli osservativi che possono garantire l’uso di un metodo di studio che chiamiamo scientifico. Perduti questi riferimenti, l’”analisi” può andare a “scomporre” ad infinitum, fino all’insignificanza, quelli che sempre meno sono fenomeni e sempre più costrutti ipotetici dell’osservatore-clinico. Questo lo si vede ad esempio in certi usi dei test proiettivi, i cui risultati fanno dire a molti autori che esprimono più i pregiudizi dell’esaminatore che quelli del paziente.

Una difesa del clinico da questa rischiosa fuga speculativa è rappresentata dall’uso di concetti e quindi di termini che mantengano dei vincoli con l’osservabile. Che siano cioè definibili in base ad operazioni chiare, come accade nelle altre scienze. Con un’attenzione quindi, di tipo metodologico, al modo con cui vengono raccolti i dati osservativi. Con un’attenzione, inoltre, a non confondere il livello descrittivo con quello interpretativo, in modo tale da salvaguardare la possibilità di smentire o corroborare ipotesi causali o ipotesi circa possibili (e frequenti) errori di osservazione / interpretazione dei comportamenti.

Senza cadere nell’illusione dell’oggettivismo, questa capacità metodologica di osservazione ed analisi dovrebbe anch’essa essere insegnata ad uno psicoterapeuta, oltre al bagaglio dei saperi derivanti dalla ricerca sperimentale, nell’ambito della psicologia clinica e della psicoterapia. E poiché, come ho sottolineato prima, non è possibile una completa valutazione clinica al di fuori di una interazione umana, è chiaro che il clinico stesso diventa parte della valutazione, come strumento di assessment.

Da questo suo costituirsi come strumento di valutazione, oltre che di intervento, discende la necessità che il clinico-psicoterapeuta conosca bene se stesso, in particolare le proprie capacità, atteggiamenti e limiti. È necessario, cioè, che conosca le proprie reazioni emozionali, per evitare che interferiscano o per metterle al servizio del trattamento, i suoi schemi e distorsioni cognitive (bias), i valori personali per distinguerli da quelli dei suoi pazienti, nonché i propri interessi ed abilità specifiche, in modo da poterli eventualmente utilizzare. Ed è importante inoltre che lo faccia applicando gli stessi metodi e categorie di osservazione che avrà appreso nel corso della sua formazione teorico-pratica.

Si tratta quindi di uno studio auto-centrato, di cui fa parte certamente l’”analisi” nel senso che ho detto sopra, così come è bene illustrato in questo libro di Stefania Borgo. Come già detto, non sarà soltanto uno studio delle componenti intrapsichiche, con un riferimento (anche metodologico) agli osservabili, ma anche di quelle comportamentali e relazionali, con riferimento ai contesti in cui si sono sviluppate.

Già nei primi anni ’50 B. H. Skinner (1953) aveva studiato i comportamenti autodescrittivi; ma le metodiche auto-osservative (self-monitoring), in cui la persona è sia oggetto che soggetto, sono regolarmente in uso in ambito clinico negli anni ’70, a seguito degli sudi e teorizzazioni di F. Kanfer (1970), C. Thoresen e M. Mahoney (1974; Mahoney e Thoresen, 1974), sui processi di autocontrollo e di autogestione del comportamento, che hanno costituito una sostanziale espansione del paradigma skinneriano. Tali studi hanno prodotto metodiche efficaci nell’ambito del trattamento ed autogestione di comportamenti problematici, ad esempio nelle dipendenze (Sibilia et al., 2001).

Già D. Meichenbaum nel 1980 chiamava questa attività di autosservazione sistematica “etologia cognitiva” (Meichenbaum e Butler, 1980). Oggi si può affermare che l’addestramento del paziente all’autosservazione è forse la componente più frequente nelle psicoterapie cognitivo-comportamentali. S. Borgo, tuttavia, ha elaborato ed esteso tali procedure – anche in base alla propria lunga esperienza didattica – ad un’ampia gamma di aree comportamentali ed emozionali, per finalizzarle alla formazione di una consapevolezza personale ad ampio raggio del terapeuta.

Vorrei qui precisare i motivi per cui l’analisi formativa, come qui illustrata, presenta radicali differenze con la più nota “analisi personale” oppure “didattica”, di ascendenza psicoanalitica, e quindi non possa essere confusa con questa; così come non può essere confusa con altre forme di terapia personale dell’allievo psicoterapeuta, che così frequentemente vengono richieste dalle scuole di psicoterapia.

Anzitutto è bene tener presente che l’analisi formativa è finalizzata alla formazione e non alla cura di supposti disturbi: non si presuppone quindi per principio la presenza nell’allievo di disturbi psico-emotivi o comportamentali da superare o da curare. Anzi, bisogna pensare che la presenza di disturbi clinici in un allievo sia un’eccezione piuttosto che la regola; cioè un fatto anomalo, se si assume che sia stata compiuta attentamente la selezione all’inizio dell’iter formativo in psicoterapia.

La “cultura del sospetto”, infatti, che induce a credere alla presenza di psicopatologia anche quando non vi siano “sintomi”, non fa parte della tradizione cognitivo- comportamentale. Naturalmente, la presenza di psicopatologia non si può mai escludere del tutto; ma, se accertata, sembra sensato affrontarla mediante una vera e propria terapia, cioè con un’attività non confondibile con la normale formazione.

Si potrebbe obiettare che ignorare la presenza di disturbi – magari sub-clinici o inevidenti – nel candidato psicoterapeuta potrebbe esporre a dei rischi sia lui che i suoi pazienti. Tuttavia, si possiedono ormai degli strumenti clinici di valutazione sufficientemente attendibili per evidenziare la presenza di svariatissime psicopatologie, per non parlare dei metodi psicologici di selezione del personale. Ed è sorprendente quanto poco questi metodi vengano adottati per la selezione degli allievi psicoterapeuti.

Inoltre, la ricerca sperimentale ha ormai appurato che il suddetto rischio non viene affatto eliminato da una psicoterapia personale. Oggi sappiamo che, al contrario di quanto ancora si crede comunemente, i terapeuti che hanno attraversato l’esperienza della terapia personale (sotto forma prevalentemente di “analisi personale”) non risultano affatto né più efficaci né più equilibrati di coloro che non l’hanno ricevuta (Clark, 1986; Sibilia, in stampa). In altri termini, la terapia personale non conferisce affatto all’allievo maggiore efficacia terapeutica o resilienza emotiva. C’è anzi qualche prova sperimentale che abbiano esiti migliori quei pazienti i cui terapeuti non si sono sottoposti affatto a terapia personale, e che gli esiti siano tanto migliori quanto meno ore di terapia hanno ricevuto i loro terapeuti (Mcaskill, 1992)!

Ci si potrebbe chiedere perciò come mai si crede ancora di dover includere nella formazione dello psicoterapeuta la terapia personale. Al proposito, è forse poco noto che fu C. G. Jung, allievo di S. Freud e figlio di un pastore protestante, a proporre che si fissasse la regola dell’essere analizzati, per poter esercitare la psicoanalisi (Meyer, 2006); la motivazione era l’esigenza che l’allievo si liberasse dalla propria psicopatologia, assunta come certamente presente, anche se occulta. È forte qui l’assonanza con il concetto di peccato originale, creduto sempre presente, anche negli innocenti. Comunque, prima ancora di sottoporre le sue teorie ad alcuna verifica, il fondatore della psicoanalisi accolse subito tale regola, rendendola obbligatoria, forse intuendo l’enorme potenziale che ciò poteva avere per la diffusione del suo pensiero.

In secondo luogo, coerentemente con gli assunti, l’analisi formativa implica un contesto di carattere formativo, e non un setting terapeutico, chiuso e riservato. Ad esempio, non prevede affatto una “relazione terapeutica”, piuttosto si situa in un contesto di gruppo, aperto al confronto dialogico e alla verifica. È il gruppo che, insieme al docente, accoglie ed esamina i resoconti dell’allievo, ne valuta la congruenza e la completezza, offrendo spesso ipotesi alternative; ciò stimola l’allievo a completare, estendere, integrare osservazioni e ricordi di esperienze, per ricomporle poi in un insieme significativo più ampio e quindi nuovo. Tale effetto non ha nulla a che vedere con il concetto di “guarigione”, ma è strettamente attinente a quello di formazione e di apprendimento.

In terzo luogo, l’analisi formativa è finalizzata ad aumentare l’auto-conoscenza sia dei propri limiti personali che delle proprie potenzialità. Con “auto-conoscenza” si può intendere qui, operativamente, la capacità di parlare di sé in modo realistico ed accurato. I limiti personali, una volta condivisi con il gruppo ed il docente, divengono “condivisibili”, definiti ed accettati, quindi non sono letti come “sintomi” di qualcosa di più grave che si presume nascosto. Se ne possono così esaminare, in modo distaccato e avalutativo, le implicazioni per l’assunzione del ruolo professionale. È legittimo supporre, anche se non ancora dimostrato, che l’accresciuta conoscenza consentirà al terapeuta di tenerne conto. Ma anche le caratteristiche positive, le personali attitudini e competenze, una volta messe in luce, definite e confrontate con quelle di altri allievi, acquistano una salienza tale che le l’allievo ne può comprendere meglio le potenzialità sia per sé che per il futuro lavoro terapeutico.

In quarto luogo, l’analisi formativa non presuppone affatto che le variabili più importanti siano inaccessibili alla coscienza, come previsto nei paradigmi che fanno capo al concetto di “inconscio”. Piuttosto si assume che sia possibile rilevare i dati più utili e interessanti ai fini della conoscenza di sé orientando adeguatamente l’attenzione ai contenuti di memoria con apposite domande mirate, e seguendo un metodo standard di auto-osservazione controllata. Questo assunto è del tutto compatibile con l’ovvia constatazione che moltissimi processi sono inconsci. Ma si suppone che le esperienze più significative nel plasmare il comportamento e l’affettività, per quanto dolorose o sgradevoli, siano presenti in memoria, anche se non sempre immediatamente accessibili. Questo non solo è un assunto cardine tipico degli approcci cognitivisti, ma è anche una precisa scelta metodologica: sarebbe altrimenti ben problematica la verifica di ipotesi basate su dati “soggettivi”.

In quinto luogo, tale studio si avvale per quanto possibile di un linguaggio corrente, cioè plain language, più adatto al livello descrittivo che non a quello argomentativo-interpretativo. È proprio ciò che ci si aspetta sappia poi fare il terapeuta stesso nel suo futuro lavoro clinico, in molti modi: ad esempio, usando il “linguaggio del paziente”, distinguendo osservazioni fattuali da interpretazioni, termini descrittivi da quelli interpretativi e identificando le distorsioni valutative implicite nelle parole del paziente. Così nell’analisi formativa viene anche minimizzato, pur se non del tutto scongiurato, il rischio che il linguaggio teorico e gergale “copra” l’esperienza concreta così come viene osservata e ricordata dall’allievo, distorcendola invece che evidenziandola. Ed il rischio che attraverso la teoria si realizzi un indottrinamento.

Che questo rischio sia reale, invece, almeno nell’analisi-terapia personale, è indicato da molti autori. Per fare un solo esempio, E. Glover, direttore dell’Istituto di Psicoanalisi di Londra per sedici anni, così si esprime al proposito: “È quasi impossibile pensare che uno studente che ha vissuto diversi anni nell’ambiente quasi artificiale... generato dall’analisi didattica e la cui carriera professionale dipende dalla capacità di superare le sue “resistenze” e soddisfare così le aspettative del suo analista, possa trovarsi in una posizione favorevole per difendere la sua integrità scientifica contro la teoria e la pratica che gli vengono insegnate. Quanto più dura la sua formazione, meno ne è capace”. (Sulloway, 2006).

Tale rischio si può confidare sia scongiurato nell’analisi formativa anche perché non si crea quel cumulo di potere che invece si può verificare, come ancora accade, quando: a) il rapporto docente-allievo risulta 1:1, b) il setting è blindato da verifiche esterne, c) l’attestato di raggiunta competenza professionale deve coincidere con quello di avvenuta guarigione, ed e) entrambi dipendono da un singolo docente.

Infine, come il lettore potrà osservare in questo libro, l’analisi formativa mira ad una conoscenza di sé ad ampio raggio e non focalizzata su un singolo problema o area tematica: a differenza della terapia, si esplorano tutti gli ambiti comportamentali, cognitivi ed emotivi della persona. Questa enfasi su un’ampia gamma di risorse e limiti personali sembra necessaria in ambito formativo, proprio in considerazione dell’ampia gamma di caratteristiche cliniche e personologiche che i pazienti possono presentare e che il terapeuta sarà chiamato a fronteggiare.

Si possono aggiungere anche altre considerazioni. Una prima è che la formazione in psicoterapia comporta qualche stress emotivo, che può mettere in evidenza eventuali deficit personali di autoregolazione emozionale o di abilità interpersonali. In questi casi, tuttavia, la formazione fornisce anche strumenti e metodi per il superamento di tali problemi: gli stessi metodi di intervento appresi dall’allievo possono essere applicati a sé stesso. Si tratta in questo caso di una “auto-terapia”, il cui primario valore formativo è evidente.

Se ciò non fosse sufficiente, si può indirizzare l’allievo verso una psicoterapia efficace, ma con terapeuti che non siano suoi docenti. L’esperienza raccolta finora, infatti, anche se un po’ occultata nella letteratura, ci dice che quando il terapeuta coincide con il didatta, la “formazione” si presta facilmente agli abusi già evidenziati (Swales, 2006).

L’esperienza della terapia personale, tuttavia, risulta godere di un diffuso gradimento presso gli allievi psicoterapeuti. Curiosamente, gli psicoterapeuti vi attribuiscono generalmente una grande importanza per la propria formazione (Norcross, Strausser-Kirtland e Missar, 1988). Questo dato, che emerge sia dalla letteratura che dall’osservazione quotidiana, è dissonante con la dimostrata inefficacia della “terapia personale”; inoltre, non c’è ragione di ritenere che il gradimento di per sé abbia un valore formativo, anche ammesso che abbia un ruolo motivante. Alla luce delle prove disponibili del mancato incremento di competenze terapeutiche mediante la terapia personale, sembra prudente ritenere che tale opinione derivi, più che da una valutazione oggettiva e distaccata, dall’effetto di “affiliazione” al proprio docente, e dal sentimento, che la terapia potrebbe esaltare alla pari di un rituale di iniziazione, di accoglienza in una comunità professionale e di appartenenza ad essa.

Vorrei anche aggiungere un’ultima considerazione. Non si comprende perché, nel processo di acquisizione di un’abilità professionale, l’allievo debba assumere un ruolo complementare a quello che avrà nel esercizio della sua professione. È come se si chiedesse ad un attore di recitare in un copione gli altri ruoli a lui complementari, piuttosto che il suo. Oppure allo studente di medicina di mettersi nel ruolo di paziente invece che del medico. Se si tratta di fornire all’allievo l’occasione di osservare in vivo l’operare del didatta come modello-terapeuta, vi sono altri modi per farlo, probabilmente più efficaci, quali l’osservazione dietro lo specchio, le simulazioni, etc.

Per tutti i motivi suddetti, sarebbe del tutto fuorviante utilizzare le espressioni “analisi didattica” o “analisi personale” per indicare la modalità di formazione descritta in questo libro. Espressioni queste che, prevedo, potrebbero appartenere tra breve a quella che sarà riconosciuta come una fase prescientifica della storia della psicoterapia. Quindi, anche se ovviamente la formazione in psicoterapia non passa esclusivamente attraverso questa modalità, ha fatto bene l’autrice a sottolineare questa differenza, usando la nuova espressione di “analisi formativa”. Inoltre, anche se il metodo in sé, come spesso accade, è ispirato ad una molteplicità di studi e ricerche sperimentali già accennate, è indubbiamente opera originale dell’autrice il lavoro di “assemblaggio” delle varie componenti, svolto nell’arco di decenni di attività come docente in psicoterapia.

Non bisogna tuttavia dimenticare che, nonostante le solide premesse, non abbiamo ancora sicuri riscontri sperimentali della validità di questa modalità di formazione. A rigore, non si può ancora escludere qualche errore di valutazione o di giudizio nel proporre questa forma di auto-conoscenza. È proprio la mentalità scientifica che potrebbe indurci a insinuare questo dubbio. Infatti, ci si può sempre chiedere: questa analisi svolge effettivamente il compito formativo che le viene assegnato? Viene sempre operata una sintesi? Questa visuale, che il metodo offre all’allievo, gli consente veramente di padroneggiare meglio le sue emozioni, usare le sue risorse, sintonizzarsi con i suoi pazienti? Questo linguaggio così acquisito può consentirgli di distinguere meglio i suoi problemi da quelli del paziente? E di descrivere meglio entrambi?

Un ulteriore merito di questo libro, tuttavia, mi sembra quello di avere illustrato con chiarezza di esempi e profondità di dettaglio un metodo abbastanza sistematico, lineare e coerente da essere riproducibile. Il pregio della chiarezza e sistematicità fa sì che anche i suoi effetti potranno essere studiati da altri che fossero interessati a verificarlo. Ad esempio, i risultati dell’analisi formativa potrebbero essere messi a confronto con i risultati di metodi diversi, o con una formazione in psicoterapia priva di questo lavoro auto-centrato. E così rispondere a quelle legittime domande.

Questo non è un pregio da poco. In un’epoca come la nostra, in cui il campo della psicoterapia – così come della psicologia clinica – risulta ancora intriso di residui fideistici, di concetti confusi o inconfutabili, di fenomeni settari, di autorità carismatiche e percorsi iniziatici, questa proposta dell’autrice costituisce un esempio raro di attenzione metodologica. Una iniziativa che tende ad avvicinare anche l’attività della formazione in psicoterapia alle discipline saldamente ancorate al metodo critico-empirico delle scienze basate sulla ricerca osservativa e sperimentale, quale ad esempio la pedagogia sperimentale, piuttosto che su “epistemologie” personali e soggettive e (talvolta) su imposture intellettuali.


Marta Giner Alventosa (2018)

Ambientamento al nido o inserimento?


Nei prossimi giorni tanti piccoli cominceranno il nido e per tanti di loro sarà la prima separazione dai genitori. Solitamente, per agevolare questa separazione, c’è un periodo di adattamento chiamato tradizionalmente inserimento ma che la pedagogia Montessori preferisce chiamare ambientamento al nido…e le parole sono importanti…

Quando parliamo di inserimento il ruolo del bambino è passivo quindi è l’adulto che inserisce il bambino in un nuovo contesto. Il concetto di ambientamento, invece, rispetta il principio Montessori di mettere il bambino al centro, ovvero pensare il bambino dal suo punto di vista. Il bambino ha un ruolo attivo nel suo adattarsi (ambientarsi) al nuovo contesto, essendo l’adulto un mezzo tra il bambino e l’ambiente.


Spunti per facilitare l'ambientamento al nido

Come i genitori possono accompagnare e agevolare i propri figli in questo delicato momento di ambientamento al nido:

· fiducia nella scuola: la prima cosa da segnalare è l’importanza che i genitori stessi si fidino del nido dove portano il loro bambino. Se i genitori sono tranquilli il bambino lo sentirà e sarà più tranquillo a sua volta.

· informare il bambino su come si svolgerà la sua giornata: l’ambientamento comincia da casa. Comunicare al bambino quando si sveglia come sarà scandita la sua giornata, ad esempio “ora facciamo colazione e poi ci prepariamo per andare a scuola”.

· sottolineare al bambino le cose e le persone che troverà al nido: Nel tragitto casa-nido possiamo parlare delle persone (maestre e bambini) che troverà oppure dei materiali o attività che ci sono da fare.

· favorire l’autonomia del bambino all’entrata a scuola: Una volta a scuola conviene che il bambino, se è autonomo e cammina, arrivi a piedi alla porta. Se lo portiamo in braccio fino la porta la separazione sarà più difficile (si sta così bene in braccio a mamma o papà). Inoltre se il genitore è nervoso o preoccupato per la reazione del bambino e lo porta in braccio, questo sentirà il battito accelerato del cuore della mamma o del papà e percepirà la preoccupazione del genitore! È consigliabile che siano loro a suonare il campanello (è la loro scuola!).

· saluto affettuoso e informativo: Nel momento del saluto (se già state in quella fase dell’ambientamento) oltre alla affettuosità del bacio e/o abbraccio ricordare al bambino che la mamma (papà, nonna,ECC) torna sempre. È scontato per l’adulto ma non per il bambino. Inoltre se la persona che accompagna il bambino è diversa da quella che lo andrà a prendere conviene informarlo anche a questo riguardo.


Rispettare i tempi del bambino

Infine ricordatevi che ogni bambino è diverso: ognuno reagisce diversamente e ognuno ha i suoi tempi. Il vero obiettivo di questo periodo di ambientamento al nido non è quindi che il bambino non pianga quando lo lasciamo a scuola o smetta di farlo presto, ma che dalla elaborazione di questa prima separazione porti con sé un bagaglio che lo aiuterà a fronteggiare separazioni future.


Marta Giner Alventosa
Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Intervento Psicosociale
Educatrice Montessori





Lucio Sibilia (2018)

Epistemologia e psicoterapie: una ricostruzione storica


È un errore capitale teorizzare prima di avere dei dati probanti.
Si comincia senza accorgersene ad adattare i fatti alle teorie...
Sherlock Holmes

They reason theoretically, without demonstration experimentally, and errors are the result.
Michael Faraday

1. Il metodo sperimentale

Sono ormai più di 60 anni da quando H.J. Eysenck (1952) pubblicò il famoso studio sugli esiti delle psicoterapie che - in modo clamoroso - dette l'avvio all'applicazione sistematica del metodo sperimentale nella ricerca in psicoterapia. Da osservatore in questo campo da almeno 45 anni, vorrei evidenziare una tendenza, iniziata allora, che oggi anche uno sguardo distratto mi sembra non possa ignorare: la graduale ma irreversibile acquisizione, anche nel nostro Paese, dell'importanza del metodo sperimentale nella valutazione delle procedure psicoterapiche e dei loro fondamenti.
Qui vorrei solo ricordare che i metodi osservativo e sperimentale, entrambi metodi tipici delle scienze in generale, rappresentano una conquista molto recente dell'intelletto umano. Per quanto alcuni Autori vedano inaugurato il metodo sperimentale già dagli studiosi della Grecia classica (Russo, 1996), a mio avviso basti pensare a Galileo per ricordarsi come tale metodo sia stato definito con chiarezza e iniziato ad adottare sistematicamente soltanto da quattro secoli nell'Europa moderna. Ciò è stato possibile non a caso all'inizio dell'evo moderno, un'epoca in cui in cui si cominciò a pensare che ragione e scienza potessero fornire descrizioni più accurate ed attendibili del mondo di quelle fornite dalla tradizione, dall'autorità o dalla superstizione.
In estrema sintesi, e rendendomi conto di operare grandi semplificazioni, ritengo che le premesse fondamentali del metodo sperimentale si possano sintetizzare nei due seguenti assunti: (1) che le nostre osservazioni, e quindi le previsioni e le asserzioni causali sui fatti del mondo siano “intrise di errori”, secondo una felice espressione di K. Popper, ma anche che (2) le presumibili fonti di errore (o di varianza) possano essere osservate o manipolate e quindi poste sotto controllo. Anche il metodo osservativo, tipicamente usato in campi disciplinari nuovi, campi in cui l'esplorazione può prevalere sulla verifica di ipotesi, prevede il controllo degli errori di osservazione. L'impresa scientifica, ne consegue, inizia laddove si rilevi o si sospetti un errore di qualsiasi genere nella descrizione del mondo, e si cerchi di mettere sotto controllo le plausibili fonti di errore. Il dubbio circa la presenza di errori nelle proprie conoscenze si configura il motore dell'attività scientifica: così, modelli e teorie diventano ipotesi, da verificare mediante un processo sia logico che empirico. Se il dubbio è il motore, la verifica sperimentale è la strada maestra dell'attività scientifica. Leggi tutto




Vito Manduano (2016)

I pianeti del Fanfulla. I suoni in contatto con le emozioni

Programma psico-educazionale rivolto agli utenti del servizio domiciliare del centro riabilitativo E.C.A.S.SA. Progetto realizzato dal dott. Vito Manduano con la supervisione del prof. Mario Becciu.


Il laboratorio di musicoterapia "I pianeti del Fanfulla" - i suoni in contatto con le emozioni - nasce da un ́idea maturata tra le pareti del Centro di Riabilitazione per Disabili Mentali E.C.A.S.S. (Via Bagno a Ripoli, 00146, Roma), presente da oltre trent’anni sul territorio della Magliana e il circolo di cultura A.R.C.I. Fanfulla, realtà molto attiva e conosciuta all'interno del quartiere Pigneto di Roma. Oltre agli obiettivi specifici di tipo riabilitativo in ambito cognitivo-comportamentale, il laboratorio di musicoterapia mira a favorire l’inserimento degli utenti del servizio domiciliare nel territorio. Il gruppo di ventidue pazienti che ha preso parte alla ricerca, undici per il gruppo sperimentale e undici per il gruppo campione, è composto da uomini e donne che hanno avuto una prima diagnosi di ritardo mentale lieve o medio e una seconda diagnosi di disturbo mentale in comorbilità. L’idea nasce dall’esigenza di un maggiore di inserimento degli utenti all'interno del territorio, reso non sempre facile dal rapporto a due con l’operatore di riferimento. Leggi tutto

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Giusy Nasello (2016)

Come favorire l’adattamento in un Paese straniero e multiculturale. Prevenzione del Disturbo da Stress di Adattamento


La mia esperienza di vita all’Estero mi ha permesso di sperimentare in prima persona il fenomeno dell’adattamento in un luogo straniero e in contesti multiculturali. Questo mi permette oggi di stilare una sorta di vademecum o “protocollo” per coloro che si trovano ad affrontare un trasferimento o per i professionisti che intendono “preparare” e supportare individui, gruppi o famiglie che si trovano a fare questa scelta. Oggigiorno, ci troviamo in un momento storico caratterizzato da esodi di individui, gruppi o intere famiglie in Paesi stranieri per motivi di lavoro o crescita culturale. L’individuo, pertanto, si trova nella condizione di lasciare le proprie abitudini legate allo stile di vita e adottare cambiamenti per inserirsi nel nuovo sistema culturale. Il nuovo inserimento comporta stress psico fisico che, in alcuni casi, sfocia in stress di adattamento contribuendo al malessere che può rendere ancora più difficile l’integrazione nel nuovo sistema. Leggi tutto




Lucio Sibilia (2016)

Disinformazione in psicoterapia


C'é un interessante articolo di Giovanni Maria Ruggiero su "State of Mind", il portale che si autodefinisce "Il giornale delle scienze psicologiche". L'articolo affronta, per tentare di smontarla, l'ennesima iniziativa per salvare la psicoanalisi dal declino e dall'oblio: un lavoro di un pubblicista (presunto psicologo) che parla di una "rivincita" o di una "vendetta" di Freud. L'autore del tentativo, Oliver Burkeman, ha avuto risonanza non per le sue ricerche scientifiche (inesistenti), ma perché il suo articolo é stato pubblicato su un giornale serio come il Guardian ed ha suscitato un notevole dibattito. Per non dire un polverone. L'articolo di Burkeman é intitolato "Therapy wars: the revenge of Freud", ed é basato sulle dichiarazioni di uno psicologo dell'Università del Colorado, tra più critici al mondo verso la terapia Cognitivo-comportamentale (TCC). Per consentire di comprendere i termini della disputa, ho scritto in risposta a G.M. Ruggiero l'intervento che qui riproduco:

"L'articolo di Ruggiero risulta ruotare tutto intorno a Shedler, come se fosse il campione del salvataggio di Freud a fronte dell'avanzata della terapia cognitiva. Una visione troppo semplificata. Nel far questo, sembra che la partita si giochi tutta tra due paradigmi: quello cognitivo e quello psicodinamico. Senza mostrare di chiedersi come sono state e come vengono usate queste etichette. Senza guardare il campo di gioco e osservare quali siano le sue regole. Cioé senza una buona conoscenza della metodologia scientifica, che consenta di capire e mettere in luce le debolezze di un modo di operare - clinico e di ricerca - svincolato da definizioni operative, spesso descritto con termini teorici suggestivi ma vuoti, che forniscono l'illusione di capire.

Soprattutto, senza vedere il principale limite che accomuna entrambi i contendenti (che comunque non sono gli unici nel panorama attuale): la prospettiva intrapsichica. Questa prospettiva colloca all'interno del soggetto l'origine ultima delle manifestazioni osservabili, dei comportamenti, dei problemi e dei disturbi presentati. Il contesto interpersonale e sociale vengono ignorati oppure assimilati all'orientamento teorico preferito, che - al di la delle differenze - guarda comunque alla soggettività.

Questa è anche la prospettiva di A.T. Beck, il proponente dell'etichetta "terapia cognitiva": uno psichiatra che, formatosi nell'ambiente psicoanalitico mediante il classico percorso della "terapia personale", ha rigettato in seguito molti assunti della psicoanalisi ma non questo: l'origine intrapsichica dei disturbi. Il gruppo di Beck sembra che abbia compreso questo limite, ed infatti oggi si definisce (più correttamente) "cognitivo-comportamentale". Quella di Beck é comunque una pesante eredità dei colleghi che oggi si definiscono "cognitivi", anche nostrani, molti dei quali non hanno compreso la grande lezione metodologica del comportamentismo ed il portato delle scienze del comportamento.

Non sorprende che una terapia esclusivamente "cognitiva", che sia "razionalista" o meno, abbia degli esiti non troppo diversi da una terapia cosiddetta "psicodinamica", che ha degli assunti teorici abbastanza simili (e anche delle procedure simili!). Quindi, in estrema sintesi: non ci interessa ovviamente salvare Freud (il destino del suo pensiero e dei suoi seguaci é ormai segnato), ma non ci interessa neanche salvare Beck, pur riconoscendo il suo eroico tentativo di svincolarsi e agganciarsi alla metodologia scientifica!"

Lucio Sibilia Roma, 17.3.2016



Stefania Borgo, Lucio Sibilia (2015)

La spiritualità per la pace

In: Spiritualita', benessere e pratiche meditative. Il contributo della psicoterapia, delle neuroscienze e delle tradizioni religiose

A cura di Mario Becciu., Stefania Borgo, Anna Rita Colasanti, Lucio Sibilia, Milano: Franco Angeli Ed.


Dalla fine della seconda guerra mondiale non vi sono stati fortunatamente nuovi conflitti generali, come quelli che hanno devastato il mondo nel XX secolo. Tuttavia, le guerre locali si sono susseguite in maniera ininterrotta in alcune parti del mondo, mentre in altre la “strategia della tensione”, legata ad attentati con o senza sicura attribuzione, hanno mantenuto un clima di incertezza e di paura. È stato così alimentato lo spettro di una terza guerra mondiale, stavolta combattuta con armi nucleari. La caduta del muro di Berlino ha ridisegnato la mappa dei poteri mondiali, ma è dall'11 settembre 2001 che il fenomeno bellico ha acquisito un nuovo profilo nella percezione dell'opinione pubblica: uno scontro di religioni, anzi più radicalmente, secondo molti, uno “scontro di civiltà”. Leggi tutto



Monica Napoleone (2015)

Cancro adolescenti e giovani adulti

La gestione adeguata del cancro negli adolescenti e giovani adulti, negli ultimi anni è stato oggetto di un acceso dibattito da parte della comunità medica, per primi hanno sottolineato la necessità di creare degli spazi di cura adatti alle esigenze evolutive tipiche di questa età. Una sfida importante che aprirà la strada anche ad una nuova comprensione degli aspetti biologici, clinici e psicosociali del problema.

ADOLESCENT AND YOUNG ADULT (AYA) ONCOLOGY

Le ricerche nelle patologie oncologiche, da un punto di vista quantitativo, si sono concentrate, fino ad ora, soprattutto sulla popolazione anziana, questo perché, i tumori insieme alle malattie dell’apparato cardio-circolatorio, costituiscono una delle principali cause di decesso.

Anche i soggetti in età infantile sono stati ampiamente studiati, per due motivi: primo l’elevato impatto sociale, secondo per la specificità delle neoplasie in questa fase.

La fascia di età dell’adolescenza è stata al contrario trascurata, in quanto c’è la convinzione che a questa età la salute è dominante, portando così a porre l’accento sugli aspetti legati al disagio giovanile come AIDS, incidenti stradali, abuso di sostanze ecc…, in tal senso anche i progetti di promozione alla salute si orientano in prevalenza in questa direzione.

Da uno studio condotto dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), Istituto superiore di sanità (ISS) e l’Associazione per la lotta ai tumori nell’età giovanile-(ALTEG) pubblicato nell’articolo: “I tumori negli adolescenti e nei giovani adulti dati epidemiologici recenti come base per le prospettive future” è emerso che ogni anno in Italia, circa 11.000 persone tra i 15 e i 39 anni, si ammalano di tumore, la frequenza con cui insorge la malattia negli uomini in Italia è abbastanza simile a quella europea e statunitense, nelle donne il quadro è leggermente svantaggiato se confrontato con i dati europei ma migliore rispetto a quello degli Usa dove si registrano 64 casi ogni 100.000 contro i 52 in Italia. In riferimento alla mortalità, per ambo i sessi, la situazione Italiana appare simile a quella europea e statunitense.

Il tasso di incidenza più elevato si osserva in corrispondenza del tumore della mammella femminile (24,3) e del testicolo (10,2); seguono il melanoma, i linfomi (sia Hodgkin che non-Hodgkin), i tumori della cervice uterina, dell’ovaio, le leucemie, i tumori del colon-retto e dell’encefalo.

Trascurare questa fascia di età ha comportato conseguenze importanti, portando ad una scarsa conoscenza dei fattori di rischio associati alle neoplasie negli adolescenti e poca attenzione sull’impatto psicologico e sociale che la malattia può avere nel processo di crescita.

Gli anglosassoni dicono che i ragazzi che si ammalano di tumore entrano in una “no man’s land”, dalla quale escono meno bene rispetto agli adulti o ai bambini. Dato importante e sottolineato anche dall’Associazione italiana di Ematologia ed Oncologia Pediatrica (AIEOP), quest’aspetto ha permesso di rivedere e ripensare, oltre agli spazi di cura anche un nuovo approccio al problema, come hanno evidenziato molto oncologi, la sfida è proprio quella di pensare a una nuova disciplina, come viene chiamata dagli anglosassoni “Adolescent and young adult (AYA) oncology” aprendo la strada verso una nuova comprensione anche degli aspetti biologici, clinici e psico-sociali

Le conseguenze di queste riflessioni, da parte degli oncologi hanno stimolato l’organizzazione degli spazi di cura, ora si presta attenzione alle esigenze degli adolescenti (In Italia, il primo è stato il Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano, ospedale in genere dedicato all’oncologia dell’adulto, con l’Area Giovani, attivata nel 2007 come progetto dedicato ai pazienti di 14-24 anni ).

Questa attenzione, a mio avviso,deve portarci a riflettere anche sul sostegno psicologico,su quali attenzioni e finalità debba avere un intervento, e cominciare anche a pensare ad una formazione specifica per gli operatori. Il paziente impara a riconoscere le proprie paure a dare voce al dolore se all’interno della relazione terapeutica trova la giusta accoglienza e la giusta forza, solo la valorizzazione di tutte le risorse disponibili nell’adolescente gli potranno permettere di riprendersi la vita e non perdersi questa importante fase dello sviluppo e soprattutto anche pensare di arricchire delle ricerche sulle conseguenze psicosociali che la malattia potrà avere nella vita futura.

Tutti siamo un po’ speciali ma quando la vita ci pone delle sfide importanti chiunque si trovi ad affrontarle lo è un po’ di più.

Dott.ssa Monica Napoleone
Email: monica_napoleone@libero.it

RIFERIMENTI:
ALTEG: Associazione per la lotta ai tumori nell’età Giovanile.
ISS: Istituto superiore di sanità
ISTAT: Istituto Nazionale di Statistica.

LINK:
www.aieop.org
www.istitutotumori.mi.it
www.registritumori.it
www.siop.nl
www.livestrong.org
www.teenagecancertrust.org



Lucio Sibilia (2015)

Aggressività giovanile e violenza nei videogiochi e film


C’è ancora qualcuno che si interroga sul rapporto tra violenza nei media e aggressività e violenza giovanile. Di recente, la potente American Psychological Association (APA) ha promosso nel 2013 una nuova rianalisi delle ricerche sull’argomento, che si tradurrà in un documento atteso quest’anno.

Insinuare dei dubbi sul rapporto tra esposizione mediatica alla violenza ed aggressività nei giovani è molto sospetto. Dai risultati delle più recenti e complete rassegne e metanalisi di letteratura si conclude che ogni dubbio è stato fugato circa il rapporto tra violenza nei media (videogiochi compresi) e aggressività giovanile. Come afferma Craig A. Anderson: “exposure to violent video games is a causal risk factor for increased aggressive behavior, aggressive cognition, and aggressive affect and for decreased empathy and prosocial behavior.” L’esposizione attiva e passiva di soggetti in età evolutiva a comportamenti violenti mediata da schermi (video, TV, playstation, etc.) provoca un aumento dell’aggressività a breve termine, dell’accettazione della violenza a breve e a lungo termine, una riduzione delle capacità empatiche, ed un aumento del rischio di atti violenti ed aggressivi nelle età successive, compresi bullismo e cyberbullismo.

Per molti autori questo risultato è sufficiente per mettere una pietra tombale sui dubbi circa il rapporto tra esposizione ad atti violenza ed aggressività, come d’altra parte già previsto nelle teorie social-learning (vedi: Huesmann L. R. (2010) Nailing the Coffin Shut on Doubts That Violent Video Games Stimulate Aggression: Comment on Anderson et al. Psychological Bulletin, Vol. 136, (2):179 –181).

Anche le Associazioni dei pediatri universitari americani (PAS, Pediatric Academic Societies), riunitesi il 7 maggio di quest’anno a Vancouver, hanno concluso sull’argomento che: ‘violenza chiama violenza, anche quando all’aggressività si assiste attraverso lo schermo in un cinema, della tv o di un videogioco”.

Ovviamente, ci sono molte variabili moderanti nel senso di ridurre o amplificare questo rapporto, ma una lettura attenta e non ideologica dei risultati sperimentali porta ad una conclusione inequivoca: videogiochi e film violenti aumentano l’aggressività e la violenza nei ragazzi, con effetti anche a distanza di tempo. Basti leggere: Anderson C. et al. (2010) Violent Video Game Effects on Aggression, Empathy, and Prosocial Behavior in Eastern and Western Countries: A Meta-Analytic Review. Psychological Bulletin, Vol. 136, No. 2, 179 –181.

Anche in una nostra ricerca su alunni delle scuole di Roma (Studio “RAVAS”, di L. Sibilia e E. De Leonardis), di prossima pubblicazione, il rapporto è evidente ed è in linea con il modello teorico cognitivo-comportamentale: il comportamento violento è appreso, spesso precocemente nella vita del bambino, osservando le persone intorno ed osservando i personaggi nei film, videogiochi e TV. Inoltre, i media violenti e le esperienze di violenza agita virtualmente nei videogiochi aumentano i comportamenti spregevoli e possono provocare paura, sfiducia e incubi paurosi.

Come nel caso del fumo di tabacco, purtroppo, ci sono giganteschi interessi economici che tentano di nascondere questi effetti nocivi (il mercato dei videogiochi è miliardario); e di solito lo fanno insinuando nuovi dubbi. Non solo da parte dell’industria, ma anche di alcuni “esperti”, difensori dell’ipotesi della “necessità” dello sfogo ovvero dei benefici della “catarsi”, ipotesi che nasce dall’idea che tali comportamenti siano prodotti da una incontenibile quanto misteriosa energia interna.

Invece, il vero quesito che più conta a questo punto – a mio avviso – è il seguente: come ridurre l’esposizione dei giovani a contenuti violenti nei film e nei videogiochi ed impedire le esperienze positive di violenza virtuale nei videogiochi? Quali provvedimenti, politiche e normative possono aiutare a questo scopo?

Lucio Sibilia



Lucio Sibilia (2015)

La felicità umana



Il miglior discorso che abbia mai letto sulla felicità umana non è di uno psicologo, di uno psichiatra o di un romanziere, ma del Presidente dell’Uruguay: Josè Mujica. E’ il discorso che pronunciò l’anno scorso al Summit del G20, tenutosi a Rio de Janeiro. Mujica.
Curiosamente, sembra non aver trovato risonanza nei media: a malapena si riesce a trovare in rete una completa e decente traduzione inglese!
Eccolo in italiano:

“Un grazie particolare al popolo del Brasile, ed alla sua Signora Presidentessa, Dilma Rousseff. Grazie anche alla sincerità con la quale, sicuramente, si sono espressi tutti gli oratori che mi hanno preceduto. Come governanti, tutti manifestiamo la profonda volontà di favorire gli accordi che questa nostra povera umanità sia capace di sottoscrivere. Permettetemi, però, di pormi alcune domande a voce alta.

Per tutto il giorno si è parlato di sviluppo sostenibile e di affrancare, dalla povertà in cui vivono, immense masse di esseri umani. Ma cosa ci passa per la testa ?

Pensiamo all’attuale modello di sviluppo e di consumo delle società ricche?
Mi domando: che cosa succederebbe al nostro pianeta se anche gli indù avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno ci resterebbe per respirare ?

Più chiaramente: il mondo ha le risorse materiali, oggi, per rendere possibile che 7 od 8 miliardi di persone possano sostenere lo stesso livello di consumo e di sperpero che hanno le opulente società occidentali?
Sarebbe possibile tutto ciò?
Oppure, un giorno, dovremmo affrontare tutt’altro tipo di dibattito ?

Perché siamo stati noi a creare la civiltà nella quale viviamo: figlia del mercato, figlia della competizione, che ha portato uno sviluppo materiale portentoso ed esplosivo. Ma l’economia di mercato ha creato la società di mercato che ci ha rifilata questa globalizzazione.

Stiamo governando noi la globalizzazione oppure è la globalizzazione che governa noi ? E’ possibile parlare di fratellanza e dello stare tutti insieme, in un’economia basata su una competizione così spietata ?

Fino a dove arriva veramente la nostra solidarietà ? Non dico queste cose per negare l’importanza di quest’evento, al contrario. La sfida che abbiamo davanti è di una portata colossale, e la grande crisi non è ecologica, ma è politica!

L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma sono queste forze che governano l’uomo … ed anche la nostra vita! Perché noi non siamo nati solo per svilupparci. Siamo nati per essere felici. Perché la nostra vita è breve e passa in fretta. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare.

Ma se la vita ci scappa via, lavorando e lavorando per consumare di più, il vero motore del vivere è la società consumistica, perché, di fatto, se si arresta il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, spunta il fantasma del ristagno per tutti noi. E’ il consumismo che sta aggredendo il pianeta.

Per alimentare questo consumismo, si producono cose che durano poco, perché bisogna vendere tanto. Una lampadina elettrica non deve durare più di 1000 ore, però esistono lampadine che possono durare anche 100 mila o 200 mila ore! Ma questo non lo si può fare perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere la civiltà dell’usa e getta, e così restiamo imprigionati in un circolo vizioso. Questi sono i veri problemi politici che ci esortano ad incominciare a lottare per un’altra cultura.

Non si tratta di immaginare il ritorno all’uomo delle caverne, né di erigere un monumento all’arretratezza. Però non possiamo continuare, indefinitamente, a lasciarci governare dal mercato, dobbiamo cominciare ad essere noi a governare il mercato. Per questo dico, con il mio modesto pensiero, che il problema che abbiamo davanti è di carattere politico.

I vecchi pensatori, Epicuro, Seneca o finanche gli Aymara, dicevano: “povero non è colui che ha poco, ma colui che necessita tanto e desidera sempre di più e di più”. Questa è una chiave di carattere culturale. Per questo saluterò di buon grado gli sforzi e gli accordi che si faranno, e come governante li sosterrò. So che alcune cose che sto dicendo, possono urtare.

Ma dobbiamo capire che la crisi dell’acqua e del clima non è la causa. La causa è il modello di civiltà che abbiamo messo in piedi. Quello che dobbiamo cambiare è il nostro modo di vivere!

Appartengo a un piccolo paese, dotato di molte risorse naturali. Nel mio paese ci sono poco più di 3 milioni di abitanti. Ma ci sono anche 13 milioni di vacche, tra le migliori al mondo, e circa 8 o 10 milioni di meravigliose pecore. Il mio paese è un esportatore di cibo, di latticini, di carne. E’ una pianura e quasi il 90% del suo territorio è sfruttabile. I miei compagni lavoratori, hanno lottato molto per ottenere le 8 ore di lavoro.
Ora hanno conseguite le 6 ore lavorative.

Ma quello che lavora 6 ore, poi cerca il secondo lavoro, per cui lavora più di prima. Perché? Ma perché deve pagare una quantità enorme di rate: la moto, l’auto, e paga una rata ed un’altra e un’altra ancora, e quando decide di riposare… è oramai un vecchio reumatico, come me, e la vita gli è volata via.

E allora uno si deve porre una domanda: è questo lo scopo della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Lo sviluppo deve favorire la felicità umana, l’amore per la terra, le relazioni umane, la cura dei figli, l’avere amici, l’avere il giusto, l’elementare.

Perché il tesoro più importante che abbiamo è la felicità! Quando lottiamo per migliorare l’ambiente, dobbiamo ricordare che il primo elemento dell’ambiente si chiama felicità umana!

Grazie !”

Lucio Sibilia

[Modificato, da: http://www.venceremos.it/2012/12/29/il-miglior-discorso-del-mondo-di-jose-mujica-presidente-delluruguay/]


Lucio Sibilia (2013)

Il sogno come attività programmabile


I sogni possono essere modificati dal paziente e dallo psicoterapeuta? Nuove prove in contrasto con la classica impostazione della psicoanalisi.
Il sogno sembra essere in rapporto con i processi di apprendimento.
Un articolo di Lucio Sibilia pubblicato su Psicologia Contemporanea di lug-ago 2013 (pagg. 34-39): Leggi tutto